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Claudia Haberkern è nata a Heilbronn in Germania. Dal 1981-87 studia teatro contemporaneo e sperimentale con membri del Living Theatre e il Grotowski Ensemble a Berlino e alla scuola Jacques Lecoq a Parigi. A traverso la costruzione delle maschere e l’ introduzione nell’arte della scenografia da Jacques Lecoq, comincia a frequentare degli atelier di artisti plastici e nel 1987 lascia il teatro e inizia a assistere e collaborare nello studio parigino dello scultore Uruguayano, Ricardo Santerini. Espone le proprie opere a partire dal 1993. Nel 2004 consegue il primo premio del concorso Cesare Pavese a Santo Stefano Belbo nella categoria scultura, preseduto da Angelo Mistrangelo. Dal 2009 partecipa frequentemente con i suoi lavori alle iniziative della Fondazione WAD a Delft in Olanda, quali il parco delle sculture, il laboratorio di Landart e le Poetry Exhibitions. Su invito di Marco Vallora partecipa nel 2011 al Padiglione Italiano della Biennale di Venezia a Torino e negli anni 2013 e 2014 alla International Art Fair di Gyeongnam in Corea. Nel febbraio 2014 ha tenuta una personale nella Sicoh Gallery a Tokyo. Vive e lavora nella Tenuta Torrone della Colombara di Livorno Ferraris in Piemonte.


Claudia Haberkern was born in Heilbronn, Germany.
Studies and collaborates with members of the Living Theatre and Grotowsky’s Theatre Laboratorium in Berlin . Studies Contemporary Theatre with Jacques Lecoq in Paris.
From 1987 she studies and collaborates in the studio of the Uruguayan sculptor, Ricardo Santerini. Holds exhibitions since 1993.
Lives and works in the domain Torrone della Colombara (Livorno Ferraris, Piedmont, Italy), where she has a permanent exhibition.
RECENCIONS AND ARICLES




La Stampa, 1 November 2014


Testo del catalogo “La Possibilità di un’Isola”
Di Ivan Quaroni

(…) La possibilità di un’isola è, dunque, allusione a uno stato necessario d’immersione (e introversione) che consente all’artista di uscire, almeno momentaneamente, dal flusso dei pensieri e delle attività ordinarie.
Da questa necessità nasce il lavoro di Claudia Haberkern, le cui sculture sono il riflesso di una ricerca della “verità”, scaturita da un’esperienza intima e diretta dei suoi soggetti, sovente connessi al mondo delle forme organiche e naturali.
Il suo percorso artistico inizia negli anni Ottanta, nell’ambito delle sperimentazioni attoriali del Living Theater, dove il training proposto agli allievi è basato sulla ricerca e appropriazione di quei sentimenti e quelle sensazioni che rendono più credibile l’interpretazione dei personaggi. Forse proprio questa palestra attoriale, fondata sull’immedesimazione, finisce per influenzare l’approccio artistico di Claudia Haberkern. Nel periodo passato con il Living Theater, infatti, l’artista comprende come il corpo sia, in effetti, un serbatoio di memorie primordiali, un collettore di conoscenze che nulla hanno a che fare con i processi cognitivi intellettuali. “Probabilmente, il fatto che alcune mie sculture appaiano come traduzioni di movimenti corporei”, afferma lei, “è il risultato dell’allenamento fisico di quel periodo”. Ancor prima di visualizzare le proprie opere, l’artista sperimenta una sorta d’identificazione fisica con le forme e i materiali che poi modellerà attraverso un iter lungo e complesso. Claudia Haberkern raramente esegue un disegno preparatorio. Parte, invece, da un piccolo bozzetto in argilla, che viene via via ripreso e talvolta ingrandito. Da questo, ricava uno stampo, un negativo, in cui viene colata la resina. Una volta solidificato in sottili strati trasparenti, il materiale plastico è ulteriormente lavorato con l’aggiunta di carte e fibre vegetali. Il risultato finale è, quindi, la conseguenza di un lento processo in cui le sculture passano attraverso diversi stadi di metamorfosi formale. Si può dire che non solo l’immagine finale contenga allusioni al mondo organico, ma che il procedimento stesso di esecuzione obbedisca a un ritmo trasformativo analogo a quello dei processi naturali. Ad esempio, le sculture pensili della serie Summer’s distillation, in cui è evidente l’allusione al mondo delle forme floreali e vegetali, danno l’impressione di essere costruite con materiali naturali, invece che con resine d’origine industriale. Questi strani fiori (dischiusi per noi sotto cieli più belli ), somigliano a trasparenti filigrane trafitte dalla luce, con le corolle di petali leggeri, fluttuanti come le carte di una lanterna cinese.
Riflettono i processi metamorfici dell’ecosistema anche le sculture della serie My Breath goes everyplace, caratterizzate da uno slancio verticale che ricorda ora i fusti e gli steli arborei, ora i gusci di larve e insetti. Sono opere altrettanto aeree, dalle superfici vibranti, innervate d’increspature che suggeriscono un senso di fremente vitalità. Insieme alla luce, impalpabile, eppure fondamentale ingrediente delle sculture dell’artista, il movimento (o la sua illusione) è forse la caratteristica più evidente del suo linguaggio. In particolare, nelle sculture in terracotta intitolate Canzoni in terra – d’amore e di vita, ritornano quelle dinamiche torsioni e quegli avvolgimenti anatomici, che hanno caratterizzato larga parte della sua ricerca e che confermano il ruolo primario che Haberkern conferisce al corpo, quale forma suprema d’intelligenza tattile. “Modellando l’argilla”, racconta, infatti, l’artista tedesca, “faccio un’esperienza che non smette mai di stupirmi: quella delle mani che traducono in un oggetto tangibile emozioni che, altrimenti, non avrebbero forma, colore, consistenza e temperatura”. In definitiva, per Claudia Haberkern la scultura resta un’esperienza vitale, assimilabile per certi versi alla poesia (Gedicht) perché, a differenza della pittura (spesso tendente alla narrazione), essa deve essere capace di condensare tutto, sinesteticamente, in una sola, efficace, intuizione formale.
Charles Baudelaire, La morte degli amanti, in I fiori del male, traduzione di Attilio Bertolucci, Milano, Garzanti, 2006.
Thoughts on Metamorphosis
Tsuyuhiko Hinatsu - Yokohama 2012
All things change, whether slowly or quickly.  This is true of the earth, the sun, and the entire cosmos.  It is easy to see changes in microcosmic human beings and other living creatures as they take place from moment to moment.  Although there may be order or regular cycles in the universe, but there is no way of knowing what sudden changes will occur in the future.
Claudia Haberkern’s monochrome sculpture recalls fragments of the living ecosystem, grasps moments of metamorphosis, and seems to breathe in an exhilarating way.  She creates forms that resemble human torsos and embryos, small creatures being born, skins that have been shed, and flowers beginning to bloom.  Some of her figures seem inspired by Greek myths.  At the same time, her sculptures are quite abstract, monochrome, and rough in texture.  Some are suspended in midair, some sit on bases, and some stand on the floor.
The surfaces look raw and bare, but they are enveloped in emotions like joy, anger, and sadness.  The artist captures moments of metamorphosis with resilient powers of thought and feeling, taking them in her hands and giving them form. The viewer can experience joy in moments of blossoming or birth, sense pathos or anger in strangely twisting torsos, and even hear cries of suffering in some of the images. 
Haberkern’s plastic or terra cotta sculptures look weak and fragile at first glance, but are imbued with powerful thought and emotion.  Her style of expression has been developed from an unusual background.  She was born and raised in southwestern Germany, the setting for Hermann Hesse’s Under the Wheel, a novel that criticizes the excesses of our competitive modern society and proclaims the value of working with the hands.  In Berlin, she experienced the “theater laboratory” and “poor theater” of Polish director Jerzy Grotowsky and studied pantomime with Jacques Lecoq.  She was trained to express her thoughts and feelings by performances with the physical body.  While studying contemporary theater, she became aware of the difficult issues afflicting human life and society in the wake of World War II, and she came in contact with a wide variety of art and ideas.
One of the writers whose influence led her to the art of sculpture was Rainer Maria Rilke, the Czech-born Austrian poet who took up the challenge of living purely and passionately advocated the fulfillment of dreams.  Rilke was a great admirer of Auguste Rodin and wrote an excellent essay on the sculptor.  Rodin rejected rigid classicism and attempted to grasp the human body in flowing forms animated by complex passions.  In writing of the difficulties of Rodin’s youth, Rilke characterized him as a dreamer but one whose dreams were expressed in his hands.    He was able to accomplish what he did by being in profound touch with nature.  His creative spirit was attuned to moments of transformation and he was able to put his instantaneous responses into sculpture.
At age 27, Haberkern began studying with the Uruguayan sculptor Ricardo Santerini and making her own original works of art based on her experience of physical performance and respect for handwork.
Her sculpture, which is inspired by contemporary theater, Rilke, and Rodin, is thought-provoking and elicits a variety of responses from the viewer.  Sometimes, it has the effect of Revelation.

Tsuyuhiko Hinatsu(露彦日夏)is a member of the Association Internationale des Critiques d’Art


C. Taolino
Vercelli, 2008


Franco Bergoglio
Locarno, 2006

Il critico è un amante frustrato dall’oggetto delle sue attenzioni.
 Non avendo capacità pratiche per intervenire direttamente sulla materia, prima sublima e poi tesse un dialogo continuo con l’altro, con il faber e l’affabulatore: l’artista.
Non potendo fare arte, la ricrea attraverso il pensiero e la sostanzia con la parola.
Gli artisti vivono di gesti. I critici sui gesti.
In questo intreccio tra parola e azione, si situa il lavoro di Claudia, che mi ha confidato una volta:

“Spesso capisco solo dopo tempo  ciò che ho fatto nel mio lavoro”

Inutile a questo punto costruire un ponte verbale tra l’opera e il suo autore. I lavori di Claudia sembrano interrogare il silenzio in autonomia dal mondo circostante e silenziosamente offrire risposte.
Il dialogo della scultrice con la materia è intimo come la trance che la avvolge; quando l’occhio dello spettatore non è ancora ammesso a curiosare.

Solo se l’autore nel suo lavoro rinuncia alla seduzione anche i fruitori possono beneficiare di una totale libertà interpretativa.
Dietro il silenzio che emana  dalle opere di Claudia ci sono domande sulla creatività, sulla vita e sul mondo contemporaneo.
Non c’è una torre d’avorio dietro questo silenzio, ma sensazioni e risposte, che mi sembrano battere percorsi meno appariscenti di quelli di molta arte contemporanea.

Forse per questo,  risultano  anche più inquieti ed insieme irrequieti.

          Franco Bergoglio


L. Lizzi
Livorno Ferraris, 2006

La Gazzetta, maggio 2006

Entrare nel mondo della scultrice Claudia Haberkern significa anche condividerne le scelte di vita, i luoghi in cui le sue sculture vedono la genesi, in cui il materiale si plasma fra le sue mani.
E’ infatti dal 1990 che l’artista tedesca vive ed opera nella grande tenuta Torrone della Colombara, all’apparenza un luogo in cui le sue sculture fatte di forme e materiali leggeri cozzi contro la vita quotidiana e col ritmo di una cascina agricola: le sue sculture escono dalla quotidianità, ma solo nel contesto in cui esse nascono hanno senso di esistere.
Per l’artista indispensabile è il silenzio desertico, l’orizzonte vasto della risaia, persino la nebbia che confonde i contorni delle cose per poter creare le sue figure così leggere: dal materiale utilizzato, una resina diafana quasi madreperlacea che allo stesso tempo cattura e si riscalda della luce da cui viene attraversata, fino alle forme pure delle sue figure misteriose che si rifanno ai miti greci, alla natura nel grande mistero della sua trasformazione, all’essenza femminile delle cose.
L’arte per lei è una continua ricerca dell’essenza, distinguendo con occhio acuto ciò che è superfluo e ciò che è invece essenziale per cogliere il substrato delle sue opere; un lavoro quello artistico che lei compie, che ama paragonare a quello compiuto fino a qualche anno prima negli stessi luoghi dove lei opera dalle mondine, trovando parallelismi fra le due attività apparentemente così lontane.
Nella sua arte non esiste una verità assoluta, ma è un modo che le permette di trovare un’altra dimensione nella quotidianità in cui vive, un modo per imparare a collocarsi nel mondo.
I suoi rapporti con i luoghi che la ospitano vanno anche oltre la semplice ispirazione: la Haberkern è infatti anche una delle animatrici delle visite alla tenuta Rondolino, ribadendo l’importanza sociale del museo della civiltà contadina che essa ospita.
Il percorso ecologico in cui la tenuta è inserita è anche uno dei motivi di persistenza della cascina stessa ,ricordando come il riso biologico che viene coltivato è un ritorno alla radici, che permette di ascoltare ciò che la natura ispira anzichè tentare di sovrapporsi ad essa.
Claudia Haberkern fa rivivere i luoghi della civiltà contadina con originalità, in un percorso attraverso cui la sua arte scultorea si trasforma, come avviene dalla crisalide alla farfalla.
Le sue opere sono in mostra fino al 31 agosto all’ospedale regionale di Locarno, in Svizzera.
Laura Lizzi


A. Cesare
Crescentino, 2005

M. Olivetti
Crescentino, 2004

Rose Key
Lugano, 2003
Le sculture di C.H. evocano delle sensazioni molto semplici e fondamentalmente umane. Trasmettano la stabilità dell’albero, radicato non soltanto nella terra ma, attraverso le fronde e la ramatura, anche nel cielo. Questo lavoro sembra emanare qualcosa di magico piuttosto che provenire da idee preconcette o concettuali. Nella serie di altorilievi intitolata “senza gravità”, l’impressione della trasformazione, della rinascita in altre forme, è immediata – quasi fosse la pelle dello spettatore stesso a lasciare filtrare la luce – il suo corpo a parsi più sottile. Sono delle opere che non si preoccupano dell’anno che si scrive o della moda da seguire …. Ambiscono di accedere in uno spazio nel quale i rumori e gli umori quotidiani si schiariscono per incontrare l’essere umano lì, dove il contatto con la propria origine non è mai stato interrotto.
STATEMENTS AND INTERVIEWS

Estratto da  Mare Magnum – 40 storie di vita e di arte fuori e dentro l’Italia
Pubblicazione di Cristina Picciolini,  2014

  1. Claudia Haberkern artista tedesca che decide di vivere e lavorare in Italia. Quando ti è successo e di cosa ti occupi di preciso?

    Sono in Italia dal 1989, dopo di aver vissuto 4 anni in Francia.
    Inizialmente giravo, insieme al mio compagno, la Toscana in cerca di una casa con atelier. Poi, attraverso un nostro amico, conoscevamo il proprietario di una grande tenuta risicola in Piemonte, La Colombara.  Era un posto disabitato, enorme, silenzioso - ideale per lavorare. Mi occupo di scultura.
    Ho trovato letteralmente tanto spazio qui. Era intrigante scegliere a vivere in due persone (e in seguito completamente da sola), in un posto enorme e disabitato, dove una volta abitavano ca. 30 famiglie, 200 vacche e molti altri animali.

  2. Ti hanno mai fatto la domanda, “ma come è possibile che hai deciso di vivere in Italia? Nel tuo paese funziona tutto e qua non funziona niente”: Cosa hai risposto?

    Funzionare non è tutto.  Apprezzo moltissimo la maggiore capacità di godersi le “piccole
    cose” degli Italiani – il mangiare ad esempio. Si è un po’ meno preoccupati di perdere del tempo in Italia, con la conseguenza, mi sembra, che le persone hanno – ancora – un po’ più gusto nel vivere il momento.  Certo, se c’è poi da aspettare 3 ore in posta per francobollare una semplice lettera, prevale anche in me l’ammirazione per il buon funzionamento delle cose in Germania …

  3. Ti senti integrata in Italia ? Cosa vuol dire integrazione per te ?
  4. Essere una persona integra. Integrare tutte le diverse parti della mia personalità. Farne un tutt’uno. Riuscire a superare i disorientamenti temporanei che ci sono in tutte le vite, i dubbi (zwei-fel), l’angoscia.
    Forse con la tua domanda, tutto questo c’entra, perché è meno facile essere una persona integra, quando ci si trova al di fuori di una comunità dove le persone danno più o meno per scontato le stesse cose … Andare via da casa è anche rinunciare a quel fondamento per il proprio comportamento.
    Vivo dal 1990 nella cascina risicola di cui dicevo . È un luogo estremamente isolato e la questione dell’integrazione in una comunità non mi si è posta per molti anni.
    Poi, a partire dal 2004, si è formato un ecomuseo negli spazi della tenuta ed ero di colpo confrontata con la gente locale. Era una situazione rarissima, perché ci consideravamo stranieri l’un l’altro – sentendoci appartenere allo stesso posto: loro per la loro storia, io perché ormai ci vivevo da quasi 15 anni. Un’esperienza più che forte.
    Si, in un certo senso mi sento appartenere alla Colombara; il rapporto con un posto diventa più intenso se ci si vive da soli; ho addirittura la sensazione che il luogo, delle volte, risponda a delle domande, mentre sto cercando di verbalizzarli … Comunque, continuerò a essere anche un’immigrante e cioè non integrata completamente.
    Ma a proposito bisogna dire che ogni persona è un po’ immigrante, anche quelli che non sono mai partiti da casa loro: come donna in un mondo dalle regole radicatissimamente maschili, ad esempio.  Oppure, come vegetariano tra carnivori; come handicappato tra non-handicappati ecc. … . E’ per questo che probabilmente la parola “integra” lampeggiava così insistentemente quando iniziavo a concentrarmi sulla domanda: l’unico che di prima mano posso dire dell’ “integrazione“ è che per me è la sfida di costruire una  integrità personale durevole e resistente. Tutto il resto è un problema minore e tende ad aggiustarsi da solo(dico “di prima mano”, perché oltre la mia esperienza soggettiva, proveniente dalla Germania,  sono comunque consapevole che la situazione è  diversa per delle persone, ad esempio Senegalesi o anche solo Marocchini.).

  5. Ti porti dietro un senso di patria? Cosa vuol dire per te la patria?
  6. Non mi ero mai posto il problema. Direi che sono diventata una tedesca all’estero. Quando
    vivevo a Parigi, essere di una nazionalità o di un'altra non aveva nessuna importanza, perché ce n’erano tutte.  In Italia, dove non vivo nel miscuglio internazionale di una metropoli,  mi rendo conto che delle volte funziono diversamente delle persone del mio entourage, il che può rendere un po’ complicata la comunicazione. Questo mi fa spesso ricordare di essere una tedesca tra italiani. Ma non ha niente a che vedere con un senso di patria.

  7. Secondo te la lingua madre determina l'identità di una persona? Pensi che cambiando la lingua usata quotidianamente cambia anche qualcosa della propria identità?
  8. Si!  Sicuramente la lingua ci forma in qualche modo e credo sia importantissimo.
    Non so come;  forse soprattutto attraverso il ritmo, la musicalità o non-musicalità.
    Mi ricordo che all’inizio in Francia, quando ho iniziato a pensare in Francese – e anche in Italia – iniziando a pensare in Italiano, ho goduto moltissimo quel nuovo mondo che un linguaggio porta con se. Tutte le parole avevano un grande margine di significati;non erano inchiodati su un solo punto; si aprivano verso i lati più inaspettati, evocando delle sensazioni ricchissimi. … Mi ricordo, per dire un esempio, come una notte il profumo dei crêpes che aveva cucinato la mia locatrice per cena, si confondeva in un modo indescrivibile con le parole sentite durante il giorno. Era un’esperienza particolarmente forte, dovuto forse all’insolita impressione che tutti i sensi abbiano comunicato tra di loro.
    Paragonerei la lingua ad un paesaggio. Dopo essersene abituati, purtroppo, si tende a non vedere più la bellezza. E simile ad un paesaggio, anche la lingua che mi circonda quotidianamente ha un grande effetto sulla mia personalità. Ho l’impressione che tutto ciò accentui diversi aspetti, i quali però sono  parte di me già prima. L’identità non si cambia. … Anzi, mi viene a pensare che la maggiore consapevolezza, generata dalle differenze (tra il tedesco e italiano nel mio caso), aiuti a essere più consapevoli anche della propria identità. La mia madrelingua, il tedesco, ad esempio, l’ho iniziato ad amare mentre ero circondata da altre lingue. Delle volte mi riconosco letteralmente in una parola.

  9. Cosa é l’ispirazione e cosa  ti ispira maggiormente? La tua ispirazione è più legata alla gioia o al dolore?<
  10. L’ispirazione è per natura fuggevole – non si lascia afferrare – è una nuova vita che
    viene con un soffio. Letteralmente: inspirando. Spesso faccio la terribile esperienza di
    ammazzarla nel tentativo di volerla salvare e esprimere. Per me è forse questa, la lezione più importante da imparare in quanto artista :  percepire quella nuova vita e fare tutto per crescerla. Il più delle volte, questo implica l’attesa: imparare a non fare, quando c’è da aspettare. Far solo spazio dentro di me. Non mangiarmi le unghie, non darmi al caffè, all’angoscia e ai dubbi.
    Mi dicono spesso che nelle mie sculture c’è tanto dolore. Purtroppo. Ma forse è inevitabile – come esseri umani il dolore è una esperienza fondamentale e viene a galla appena ci si apre verso l’ignoto. Anzi, tende ad essere il primo che si fa avanti, prima di ammettere altri componenti della vita … 
    Ma il dolore non è mai stato la mia fonte di ispirazione. Fino ad ora era al contrario sempre un’ esperienza di bellezza (o anche di intenso desiderio di bellezza) a suscitare quel soffio che dicevo.  Sono sempre esperienze nella natura:  una ragnatela; un fiore; uno stormo di uccelli migratori nel cielo; la struttura del legno di un tronco mezzo marcio.  Inizia sempre con una specie di identificazione, cioè la  sensazione del mio corpo, di essere fatto dello stesso materiale della cosa guardata. Un’altra caratteristica di quello che chiamerei inspirazione è, che arriva soprattutto quando non me lo aspetto per niente.

  11. Cosa ti lascia nell’anima la conclusione di una mostra?
  12. Ovviamente, non è possibile generalizzare – dipende sempre dalle circostanze. Ma ogni volta si smuovono delle cose – anche cose apparentemente sconnesse con la mostra. Pure la vendita di un lavoro ha una sua valenza; ho spesso avuto l’impressione che il tema formale del pezzo venduto riprende importanza: vuole essere continuato e maturato attraverso altri lavori.

  13. Si può spiegare l’Arte contemporanea? Cosa vuol dire Contemporaneo per te ?
  14. Di fatto, contemporaneo è tutto quello che si fa ora, in questi tempi.
    Ma idealmente,per me,  il più autenticamente contemporaneo è altresì il più “classico“, cioè non perde attualità domani.  Nessuno esiste al di fuori del proprio tempo, e se riesco a sviluppare un linguaggio davvero personale, penso che sia per la sua stessa natura davvero contemporaneo. Ma se è davvero contemporaneo in questo senso, allora tocca l’essere umano a un livello che non può passare di moda.
    Penso anche che, se qualcuno sente la necessità di dipingere come il Tintoretto ad esempio, questa necessità è contemporanea – e di conseguenza lo è anche l’opera: non è meno contemporanea di un lavoro che si orienta  in  Richter, Beuys, Louise Bourgeois. O Cattelan o Brittney Spears.  Può darsi addirittura che chi si orienta nel Tintoretto  sia  più contemporaneo secondo la mia definizione,  perché impegnato in una ricerca più sua, più cosciente. Dipende da nient’altro che dallo spirito col quale si lavora.
    I risultati poi, li può giudicare soltanto chi contemporaneo non è – cioè, chi viene dopo di me.

  15. Fare arte è un modo di e per comunicare. Comunicano qualcosa in particolare le tue sculture?
  16. Comunicare dipende dagli elementi comunicanti. Un opera ha un identità e una presenza. E  nello stesso modo che una persona, così anche una scultura non si lascia ridurre a un messaggio. Se un messaggio  viene percepito, sarà che chi guarda è pronto a vedere quell’aspetto lì nell’opera, e non un altro. … Vorrei che il mio lavoro non comunichi “a” ma “con” la persona che lo  guarda.

  17. Che ruolo giocano sentimenti come lo stupore, l'angoscia, il senso del mistero e quello del vuoto, nella tua creazione artistica?
  18. Non riesco a spiegarlo. Ma c’entrano molto. Forse perché solo loro hanno la forza di trascinarmi via da me stessa – dalle idee prefabbricate, dai concetti-pomodori-sugli-occhi – e aprono le sensazioni e la percezione.

  19. La solitudine può dare un senso di vuoto, ma anche il piacere di recuperare qualcosa, e di entrare in relazione con noi stessi. Che esperienza hai tu con la solitudine?
  20. Ho già da piccola avuto l’idea che la solitudine sia una sfida che io debba dominare – che ciò che fondamentalmente m’interessa non si possa ottenere altrimenti.  Tuttavia, ho avuto troppi ideali per la testa...  Ora penso che  il contatto  con altre persone sia altrettanto necessario … e che la solitudine abbia delle sue trappole e pericoli che vanno prese sul serio. Comunque, quando leggo un brano di Emily Dickinson come il seguente, mi sento toccata da vicinissimo (ma mi pare di brancolare nel mio labirinto – più lontana dall’uscita che mai).

    I fear me this – is loneliness
    The maker of the soul
    Its caverns and its corridors
    Illuminate – or seal!

    (Temo che questa sia la solitudine:
    fattrice dell’anima.
    Le sue caverne e corridoi
    Illumina – o sigillali!)

  21. Secondo te si può spiegare l’arte a un bambino?
  22. Non so – dipende probabilmente da molti fattori, tra cui l’età ecc. Non penso cmq che lo spiegone sia importante, ma il rapporto con l’arte che hanno i genitori o altri adulti di riferimento.  Una delle gioie più grandi di questo periodo l’ho avuta, vedendo una foto che riprende  una mia amica con il suo figlio di 4 anni, piazzati in piedi davanti ad una mia scultura – sembrano di vivere un momento di grande abbandono.

  23. La nostalgia è un sentimento legato al passato, ma in tedesco il termine Sehnsucht ha a che fare anche con un desiderio rivolto al futuro.
  24. La Sehnsucht è il bisogno di coltivare un desiderio non soddisfatto.
    Benché vivo in Italia da oltre 20 anni, mi stupisco ogni volta di nuovo che la traduzione comunemente accettata sia “nostalgia”!  La Sehnsucht non ha nulla a che vedere con vaghi ricordi. I suoi colori non sono di pastello e chi è preso dalla Sehnsucht non ha, con molta probabilità, un sorriso sulle labbra.
    La parola è composta da due termini che sono altamente dinamici: Sucht si traduce con mania,  frenesia, dipendenza (ad esempio la dipendenza di droghe). Sehnen significa anelare, bramare, aspirare. Questo bramare ha un’impronta decisamente fisica – ma, appunto, nel senso di percepire non la  presenza, ma l’assenza dell’oggetto desiderato (che può essere materiale o immateriale, non importa – basta che sia irraggiungibile). 
    Mentre scrivo mi viene in mente che sarebbe strano se non esistessero dei trattati filosofici sulla Sehnsucht e il suo rapporto con la mentalità tedesca …  mi sembra che sia una chiave di lettura – guardando dal mio punto di vista geografico italiano - per capire un sacco di cose del mio paese!

    Forse in passato ho giudicato duramente una certa tendenza di “noi teutonici” di reprimere i desideri più semplici e più fondamentali; infatti, da più giovane percepivo con grande imbarazzo la nostra incapacità di accettare la vita così com’è e di godere delle  semplici gioie che offre.  Ma da più grande iniziavo a rendermi conto che tutto quello che – d’altro canto – di tedesco amo profondamente, è legato proprio a quella specie di fuga dalla realtà immediata: l’intensità di Rilke o di Beethoven (va bene, intendo tedesco in senso lato); l’espressività di Gruenewald e molti altri; l’idealismo; il romanticismo in quanto movimento filosofico ecc.
    E ovvio che in Italia, invece, non esista una parola equivalente a Sehnsucht : regna una mentalità che con maestria coltiva i desideri soddisfattibili. Tutto si sviluppa intorno ai riti per sfruttare e ampliare al meglio i piaceri semplici – il cibo, l’amore, la bella apparenza ecc.  E di conseguenza tutti gli italiani – anche i più poveri – hanno una cultura culinaria come in nessun altro paese europeo; i riti di seduzione sono più complessi, coloriti e ricchi, e la moda la si trova addosso a delle donne e degli uomini fin nel più dimenticato paesino montano. 
    Mentre la Sehnsucht spesso non si accorge della bellezza che ha davanti agli occhi, perché troppo indaffarata col desiderare qualcosa che è lontano, l’Italiano inventa milioni di ricette succulenti, modi e mode seducenti e atteggiamenti eleganti al fine di raffinare, o al meno rendere godibile, tutto ciò da cui è circondato. 
    Mano nella mano con la Sehnsucht, invece, va una sensazione struggente, che può sembrare all’occhio italiano – se non puro masochismo – come minimo  incompatibile con l’onnipresente “bella figura” da fare.
    Comunque, la vera Sehnsucht non credo abbia a che fare con il futuro … si colloca piuttosto al di fuori del tempo. La sento come un tunnel verso un'altra dimensione, un trampolino quantistico mentale …

  25. Che vuol dire per te essere un artista?
  26. Ogni epoca ha la propria definizione, perché ogni epoca necessita l’arte in un modo diverso.  I pittori di Altamira (millenni prima dei primissimi agricoltori dell’umanità ! ), testimoniano di esigenze diverse delle nostre, anche se il bisogno dell’arte come io lo vorrei intendere – rimane vitale uguale.
    Penso che volente o nolente, gli artisti  siano come dei cuochi o delle mamme che preparano del cibo.
    Ma c’è una terribile confusione – soprattutto riguarda le materie prime!  C’è chi crede che il latte sia un prodotto sintetico, ad esempio, o che le merendine siano fondamentali per il sostentamento quotidiano. Diffuso e particolarmente apprezzato da anni, è anche il credo che l’artista abbia la responsabilità di cucinare veleno per far capire alla gente che altri ingredienti ormai non si trovano più e che intanto, non ci sarebbe neanche un pubblico  che lo meriterebbe …
    Forse in questo periodo storico, fare l’artista è più difficile che mai; mi chiedo se mai prima sia esistita un epoca, che perdonava meno il Non-fare? L’attesa, il silenzio, la lentezza? Ma senza il sapere che dipende tutto dal Non-fare, l’opera d’arte diventa un prodotto. – Viene prodotto come qualsiasi altro prodotto. 
    Quello che dico è pericoloso davvero ( forse bisognerebbe categorizzarlo “vietato ai minori di 18 anni”. Anzi, meglio   “vietato ai minori di 30”). È facile annegare, perdersi e rovinare la propria vita nel Non-fare.  Eppure, un artista, secondo me, non ha altra scelta che provarci.


Benvenuti sull’Isola

Un tempo la Colombara era abitata da quasi trecento persone. Da quando il suo cortile si è svuotato, ha iniziato a parlare agli artisti. Non che le interessino le materie artistiche; lei parla della vita, del ritmo del tempo, del lontano orizzonte. L’arte per lei è solo un umile strumento.
Tutte le autentiche isole parlano ai loro abitanti – ne sono certa. Alle volte, assumono un tono da maestro (da maestra, nel caso della Colombara, perché senza dubbio femminile). Se ci penso – forse le isole sono gli unici veri maestri dell’essere umano. Questo è il motivo perché sono indispensabili.
Devo il mio prolungato soggiorno alla Colombara all’amore per l’arte della famiglia Rondolino – in particolare di Piero. Ho trovato qui una condizione in cui potevo fino in fondo sperimentare,  o meglio, coltivare  i semi ricevuti da giovanissima nella forma degli ideali del romanticismo tedesco, ma anche dai molti poeti e artisti del periodo moderno, che hanno concepito l’arte come una “immersione nell’ignoto per trovare il Nuovo”.  Non ha senso vivere su un isola senza aprirsi alla vastità. E questo implica pericoli di vario genere.  Tutti gli artisti hanno bisogno di essere protetti. La Colombara è sempre stata un’area protetta per me.
Forse ho esagerato nel continuare per così tanto tempo a fare l’isolana.  Una delle conseguenze è stata la notevole difficoltà a entrare in contatto con il “mondo dell’arte contemporanea”, una cosa che ha provocato un senso di solitudine molto più forte di quella che si prova vivendo in una cascina, ubicata giusto dietro la luna.  Però, da alcuni anni, ho avvertito che nelle grandi mostre d’arte il tema dell’outsider è diventato sempre più urgente. Con stupore mi rendo conto che il mio caso è, in un certo senso, emblematico, una regola più che una eccezione. Forse la tendenza a indirizzare l’attenzione del pubblico sugli outsider ha avuto inizio con la discussissima Documenta del 2007 con i suoi “artisti anonimi”.
Più recentemente, nel 2013, Massimiliano Gioni nella sua introduzione al catalogo della Biennale di Venezia, di cui è stato il direttore, ha scritto che Di fronte alla proliferazione delle immagini nella nostra cultura, forse agli artisti spetta il compito di coltivare una nuova forma di ecologia dello sguardo, lavorando in profondità e con lentezza, senza partecipare alla produzione e al consumo vorticoso delle immagini”.  Non so fino a che punto queste frasi siano retoriche, ma significano comunque che il problema degli artisti outsider è ormai un tema da biennale. E soprattutto, porta a interrogarsi su quale sia il ruolo dell’artista e la funzione dell’arte in seno alla società. Mi pare che nessuno lo sappia. Credo sia un momento storico confuso, ma credo anche che il caos preceda sempre il Nuovo. L’unica cosa di cui sono certa, è che non bisogna arrendersi – cosa che richiederebbe una considerevole robustezza psichica in tempi, in cui tra P.R. e arte non sembra esserci alcuna differenza. Bisogna, quindi, trovare delle isole dove riprendere forza, dove godere della protezione necessaria per approfondire e ritornare alla fonte. Il bisogno di ritornare alla fonte è una parola chiave, ricorrente sia nei discorsi degli artisti che in quelli del pubblico. Credo che sia un bisogno umano originario.      //  Vorrei ringraziare Piero Rondolino e la sua famiglia per la loro ospitalità e la loro fiducia nei miei confronti, che ha forgiato la mia vita forse più di ogni altra cosa. Grazie anche per aver reso possibile questa mostra! E grazie per aver gestito la Colombara in modo tale da aver creato …  La possibilità di un Isola.
Vorrei ringraziare Federico Mazzonelli per l’azzeccata trovata del titolo e Marco Fantini per la sua insopportabile amicizia. Grazie a Cele Bellardone e Renato Greppi per la generosissima collaborazione nel realizzare il catalogo.  Grazie a Horiki Katsutomi per avermi salvato la vita 8 anni fa! Grazie a Marco Vallora, che nel tempo è stato un importante interlocutore per comprendere il mio proprio lavoro. E – naturalmente – grazie a Arianna Beretta, Massimo Della Pola e soprattutto a Ivan Quaroni senza la cui esperienza e sensibilità questa mostra non avrebbe potuto andare in porto.

Claudia Haberkern



What do I want when I go into my studio?

Can sculpture-work be a deeply lived experience? :  Can it lead me beyond concepts?
Can awareness grow through the dedication of my hands and body and sensations?
Following the rhythm of a shape, breaking up surfaces, carving convexities and modeling concavities, deciding about horizontals and verticals, touching a material’s resistance and compliability, going into its density or lightness :  can all this converge into a language,  apt to formulate questions?
Can a sculpture ask: What is life?
Does my work communicate itself to her or him who looks at it?

Really:   what do I want when I go into my studio?l

Claudia Haberkern

(published in WAD-Sculptures 2010. Foundation WAD. The Netherlands)


Claudia Haberkern
Muta, 2008
Altezza ca. 150cm
Tecnica mista

Il tempo ha un ritmo diverso se si vive fuori in pianura, in una vecchia cascina risicola. Anziché essere cadenzato da ore e giorni, lo è soprattutto dalle stagioni. Mi chiedo se le mie sculture rivelino qualcosa di questa lentezza.
La cascina è a corte chiusa e molto grande. Ed è da tempo vuota – abitata solo da aria – come se fosse un enorme guscio.
Lo so: anche le cose piene sono abitate d’aria, ma chissà perchè ci se ne rende conto meglio, di quest'impressione, quando sono vuote.
Respirano. E il respiro va dappertutto. Va in Germania e in Giappone, in America e in montagna, nel fiore, tra le pagine d’un libro, nel corpo del mio amore....
Amo figurarmi che il respiro conosca davvero tutto.